ISOLA MAGICA: UNA TESTIMONIANZA
Ho scoperto Lanzarote nell’estate del 1986. Al Palazzo di Giustizia di Milano ero, allora, un giovane Giudice Istruttore, seguivo le indagini sul terrorismo e quell’isola magica è stata, in quel momento, la distanza mentale che cercavo, almeno per qualche settimana, da quelle storie di dolore.
Come avviene per tutti gli amanti dei libri non è stato per me un viaggio scelto a caso in un’agenzia di viaggi. Mi sembrava già, prima di partire, di conoscere, dalle guide che avevo letto l’isola, i suoi litorali bianchi a nord-est che portano sino ad Orzola e i paesaggi lunari dell’interno con i colori del ferro e del bronzo. Conoscevo anche, se per sommi capi, la storia dello scopritore genovese Lanzarotto Malocello che un Comitato di studiosi e storici finalmente ora ricorda.
In quei giorni alcuni angoli meno noti, occupati ma non invasi dall’uomo, mi avevano catapultato in un’altra epoca.
Il golfo di Famara con le casette bianche sulla spiaggia e la poppa di un peschereccio affondato che spuntava largo. I riflessi rosacei delle saline di Janubio davanti all’oceano, appena accennate sulle guide, ricordi di un passato in cui erano preziose perché i pescherecci non avevano i refrigeratori
L’isola di Graciosa, dove era possibile solo affittare qualche vecchio taxi, con le sardine messe ad essiccare che luccicavano al sole sulla spiaggia del porticciolo. Sul lato opposto dell’isoletta una baia con un minuscolo agglomerato di case, Pedro Barba, con un piccolo monumento vicino a riva eretto con le ossa di un cetaceo, quasi un segno di buon auspicio per i pescatori.
L’isola era allora protetta dal grande artista e architetto Cesar Manrique che aveva completato il disegno creato della natura aggiungendovi bellezze nuove, il Mirador del Rio, la grotta Jameos de Agua e la sua stessa casa-museo a Tahiche costruita su una colata lavica davanti al deserto e ad un paesaggio di cactus. Opere d’arte più che semplici progetti, che si integravano perfettamente, con una continuità naturale, con quanto vi era intorno, senza alterarlo.
Mi ho sono spostato anche più volte a Fuerteventura, ancora più sospesa nel tempo.
In fondo all’isola nella penisola di Yandia ho raggiunto, quasi inaccessibile, isolata a dominare la costa, la villa- castello dell’ingegnere tedesco Gustav Winter, una residenza misteriosa costruita alla fine degli anni ‘30 e probabilmente usata come stazione di spionaggio durante la seconda Guerra Mondiale.
La costa scoscesa su cui villa Winter si appoggia, quella di Barlovento, dove l’oceano oltre il quale sino alle Americhe non c’è nulla, è più violento, è completamente vuota, è rimasta, un paesaggio primigenio, come agli albori dell’umanità quando gli occhi dei primi uomini che vi si erano spinti l’avevano vista.
Sono tornato a Lanzarote molte altre volte, il fascino è rimasto immutato ma la tutela dell’ambiente si è un po’ allentata, soprattutto dopo la morte di Cesare Manrique nel 1992, vittima, per un’ironia del destino di un investimento stradale proprio a pochi passi dalla sua casa nel deserto così isolata e fuori dal tempo.
Cesar Manrique aveva voluto che ogni casa, bianca e squadrata, fosse incastonata con una precisione geometrica nel territorio che la ospitava e che lungo le strade che attraversavano i deserti dell’isola non vi fosse alcun cartello pubblicitario.
Ma negli ultimi anni nuove “urbanizaciones” e strutture turistiche di cui molte di gusto discutibile sono avanzate alterando l’equilibrio che il disegnatore dell’isola aveva conservato per tanti anni.
Sono tornato a Playa Blanca da dove partono i ferry per Fuerteventura e di cui ricordavo la passeggiata lungo l’oceano con i piccoli bar che sembravano usciti da una cartolina in bianco e nero degli anni ‘50. Ora è quasi irriconoscibile, un luogo di vacanza affollato e pieno di negozi con oggetti inutili come tanti. Ho cercato nel villaggio di Femes, che domina Playa Blanca, il bar che ricordavo con un bancone di legno e vetrine sulle pareti con vecchi manifesti e stemmi di auto da corsa europee ed americane. Una passione, credo, degli abitanti che serviva ad attenuare l’insularità. Negli ultimi viaggi non l’ho più trovato, al suo posto c’è un bar di plastica.
Da due anni ormai lavoro a Cremona ove dirigo l’ufficio GIP e dove mi sono imbattuto nell’indagine sul Calcio-scommesse. La città dal punto di vista architettonico è un gioiello ben conservato. Cremona ha dato i natali ad una famiglia di famosi ingegneri medioevali, i Torriani. Certo non è un caso che uno di loro, Giovanni Torriani, ed è un collegamento personale che mi ha colpito, per Lanzarote e le altre isole delle Canarie, abbia avuto un ruolo importante. La storia di un altro italiano da ricordare accanto a quella di Lanzarotto Malocello.
Al tempo delle scoperte le isole dovevano essere scoperte, e questo era il primo passo, ma poi essere resi accessibili e le loro difese sicure per chi le aveva conquistate come quelle di avamposti militari, così era allora, nell’oceano.
Giovanni Torriani, nominato nel 1584 ingegnere di fiducia da Filippo II, con una permanenza di cinque anni nelle’arcipelago ne aveva rafforzato i porti e le fortezze. Completò, tra le altre opere, le fortificazioni del castello di Santa Barbara che, dall’alto di un vulcano spento, domina Teguise, l’antica capitale di Lanzarote.
Nell’isola si vedono muri simili a quelli che incontro, vicino al mio Tribunale, in certi palazzi silenziosi della Cremona medioevale.
Ma Torriani non si limitò all’ingegneria. Descrisse con passione e in modo dettagliato la geografia, i vulcani e la toponomastica delle isole e contribuì con i suoi resoconti dei villaggi e delle usanze dei Guanchi a salvare parte di quello che oggi sappiamo della cultura del misterioso popolo indigeno delle Canarie che purtroppo scomparve a causa della conquista.
Tornerò a Lanzarote di certo con mio figlio Andrea che ha solo pochi mesi e che per me e per mia moglie è arrivato, insperato, all’ultimo momento.
Gli mostrerò quello che già ho visto tanti anni fa, indicandogli quello che è cambiato e quello che, molto e pieno di fascino, è rimasto uguale ad allora: sarà la nostra piccola riscoperta di Lanzarote
Guido Salvini
magistrato
settembre 2012
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Lanzarotto Maolocello nell’isola di Lanzarote
- VITA, USI, COSTUMI DEGLI ABORIGENI IN QUEL TEMPO -
Alfonso Licata
*(notizie riprese da “Le Canarien”)
Prof. Dr. Horst Seidl (Roma)
Il mio “evento archeologico” a Lanzarote, l’isola scoperta da Malocello
Durante un soggiorno di vacanze all’isola di Lanzarote, con lo scopo di far conoscenza dell’isola che Lanzarotto Malocello ha scoperto, mi sono interessato dei reperti archeologici. A tale occasione ho vissuto, direi, un “evento archeologico” che vorrei raccontare in seguito.
Ma prima devo premettere ai lettori che a me, essendo filosofo, non archeologo, da anni figure preistoriche, con faccia umana, esercitano un grande fascino perché rispecchiano, in qualche modo, come l’uomo in quei tempi lontani vedeva se stesso, particolarmente davanti alla morte. Queste testimonianze quasi dell’umanità mi sono rimaste indelebilmente nella memoria: per es. l’effigie di una faccia umana incisa in un dente eburneo (esposta nel Museo archeologico di Brno / Cecchia, datata a ca. 40 mila anni a. Cr. ), o gli uomini scolpiti in detriti di pietra, trovati al sito preistorico Lepenski Vir (Serbia), alla riva del medio Danubio, accanto a tombe e tavoli di pietra, considerati come altari di culto. Vengono datati a ca. 6000 anni a. Cr.[1]
Queste facce, nonostante la loro primitività, sono animate, guardando al cielo, venerandolo ovviamente con pietà di culto religioso.
Altrettanto ricordo i meniri, cioè steli di pietra antropomorfe, nel sito preistorico di Filitosa (presso Propriano) a Corsica che vengono attribuite all’epoca megalitica, datata ca. 3000-1000 a. Cr.[2] Armati spesso con una spada, sono ovviamente capo-guerrieri, venerati con un culto di morti. Tuttavia, poiché vengono rappresentati vivi, sembrano ancora stare in connessione con i viventi con i quali abitano insieme per proteggerli. Allineati davanti a un villaggio potevano (mi immagino) esercitare un effetto respingente (apotropaico) ai nemici. Comunque i meniri riflettono una fede religiosa secondo cui i morti vivono ancora (come lo mostra anche il culto dei morti). Le loro facce, con occhi e bocca aperti, parlano ai posteri. Accanto si vede uno dei meniri di Filitosa / Corsica, sito preistorico, Cultura megalitica, 3000-1000 a. Cr.
Tanto più ammirevoli sono per me le tombe egiziane dei Faraoni con cui arriviamo alla prima epoca storica. Le loro rappresentazioni si concentrano totalmente sui volti, con occhi e bocca parlanti, i quali esprimono tratti sereni, fiduciosi di vita eterna. Nelle tombe si aggiungono immagini e parole scritte.
Nel mio soggiorno a Lanzarote, passando alcuni giorni con l’amico Avv. Alfonso Licata, potevo godere nelle gite in macchina, lungo il mare e verso l’interno, l’austera bellezza dell’isola, la terra scarsa ma irrigata e coltivata dalla gente con metodi di antiqua tradizione. Qua e là anche monumenti da secoli scorsi. Non avendo tempo di visitare i Musei archeologici di Tenerife e di Las Palmas, la mia curiosità per le figure di epoche antiche era ristretta alla stessa isola. Per informarci l’Avvocato andò con me alla sede archeologica a Teguise dove trovai un bene curato catalogo delle figure di terracotta dei Musei delle Canarie.[3] Le riproduzioni impressionanti mostrano in gran parte idoli, per scopi di culto, e vasi o contenitori con facce umane che hanno qualcosa di paragonabile con quelle summenzionate, anche se sono di dimensioni più piccole di quelle grandi. Ciò nonostante sono sempre importanti testimonianze dell’uomo di quei tempi antichi, in un quadro sovente religioso. L’immagine, nota come de “l’ídolo de Tara” (Telde), ossia quella de “l’ídolo Chil”, mostrano figure femminili sedenti, con la testa su un collo allungato. L’altezza della prima figura è 27 cm, del dettaglio (testa e collo) ca. 6 cm. Luogo di ritrovamento sconosciuto.
Ecco due altre immagini, paragonabili con quelle mostrate sopra:
Un idolo con testa umana, altezza 5,1 cm. Luogo: Cueva pintada, Gáldar, in una delle caverne artificiali e case di pietra che si associano con un cimitero.
Un idolo con testa umana: altezza 3,3 cm. Luogo: Los Morros de Los Caserones (La Aldea de San Nicolàs) in una delle tombe di tumuli.
Un altro giorno, sfogliando diversa letteratura archeologica, con interesse puramente antropologico, feci conoscenza, accanto al catalogo, anche con articoli del noto archeologo Pablo Atoche che offrono dettagliati rapporti sui più recenti scavi a Buenavista / Lanzarote che, nella datazione, risalgono fino ai secoli VI – IV a. Cr.
Il mio “evento archeologico” accadde, incontrando la foto i una grande figura di pietra con faccia umana che rassomiglia molto a quella di Filitosa, mostrata sopra. Presi subito contatto per telefono con l’archeologo Atoche, che mi diede l’informazione dove si trova la figura, ma indicando anche la difficoltà della valutazione nonché della datazione. Come mi comunicò, si tratta di una scoperta unica del genere in Gran Canaria. Il luogo di ritrovamento: Los Valles, Teguise, Lanzarote. Altezza 44 cm, largezza 23 cm, profondità 21 cm. / Las Canarias. Il reperto viene custodito nel Cabildo de Lanzarote, Dipart. Servicio de Patrimonio Historico. La mia visita al Cabildo con la possibilità di vedere la figura in natura fu il vertice del mio breve soggiorno a Lanzarote. La foto che la segreteria mi fece la comunico qui accanto ai lettori. Sono sicuro che anch’essi non possono sottrarsi della straordinaria impressione che la figura lascia in noi oggi. Nonostante la primitività dell’origine della cultura umana, essa risplende, come le altre figure delle Canarie, nonché quelle di Filitosa e di Lepenski Vir, qualcosa dell’auto-comprensione dell’uomo come persona, concentrandosi al volto umano.
Per l’archeologo la questione della datazione di questa figura rimane aperta. Non si esclude che sia forse tarda. Ma mi domando se la sua rassomiglianza con le figure più antiche non permetta di avvicinarla anche cronologicamente a esse.
[1] Si veda: Lepenski Vir, Menschenbilder einer frühen europäischen Kultur, Röm.-German. Museum, Köln 1981.
[2] Roger Grosjean, La Corse avant l’histoire, Editions Klincksieck , 1966.
[3] Ídolos Canarios, Catalogo de terracotas prehispánicas de Gran Canaria, ed. J. O. Pintado, Áng. R. Fleitas, Carmen Gl. Rodríguez Santana, J. Ign. Sáenz Sagasti, El Museo Canario, Las Palmas de Gran Canaria 2000.
Scoperta delle Isole Canarie – Lanzarotto Malocello
UN LIGURE ALLA SCOPERTA DELLE ISOLE CANARIE : LANZAROTTO MALOCELLO
Lanzarote, Fuerteventura, Gran Canaria e Tenerife sono isole il cui nome è conosciuto anche in Liguria.
Una grande rete alberghiera, una serie di villaggi turistici, alcuni anche dei più prestigiosi tour operators italiani, una rete di aeroporti in ogni isola mettono oggi le Canarie a poche ore di volo dall’Italia.
Grandi spiagge, piccoli villaggi, una natura particolare dominata da antiche manifestazioni laviche, una natura tropicale, edifici e chiese di stile ispano-coloniale, unite ad una temperatura che non offre grandi sbalzi ,costituiscono i pregi che hanno determinato la fama dell’arcipelago.
Oggi i due porti di Las Palmas, capitale dell’isola di Gran Canaria e Santa Cruz, capoluogo di Tenerife, sono meta di grandi navi da crociera. Anche dalle “città galleggianti” scendono a terra lunghe colonne di turisti, pronte a spandersi nelle vie cittadine, a cercare un angolo di spiaggia, a compiere un’escursione verso l’interno. Tutto secondo le norme del manuale del turista dei nostri giorni. Sicuramente per il turista genovese, o comunque ligure, le Canarie hanno un fascino del tutto particolare, legate come sono alle pagine della nostra storia.
Pochi sanno che le Canarie sono state riscoperte da navigatori genovesi. Quanti ricordano che le Canarie sono isole colombiane, legate ai viaggi di scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, e che l’isola della Gomera, ancora fuori dai grandi circuiti turistici è definita “matrice” cioè madre dell’America? Varrà forse la pena rileggere alcune pagine di una vicenda ormai vecchia di secoli che ha legato le isole Canarie alla storia genovese.
Agli inizi del 1300 Genova aveva già chiuso la sua epopea mercantile nel vicino Oriente.
I Musulmani avevano ormai riconquistato tutta la Terrasanta, Gerusalemme compresa, tutte le coste dirimpettaie dell’Africa erano saldamente nelle loro mani. Si erano impadroniti dei porti che costituivano i terminali delle strade dei grandi territori della Cina, dell’India, della penisola Arabica da cui i genovesi ricavavano spezie e prodotti particolari quali oro, gemme, sete, perle, che rivendevano sui mercati europei, creando una ricchezza che fece l’invidia al mondo intero. L’occupazione musulmana determinò la ricerca di strade alternative per cercare di raggiungere i medesimi mercati facendo il giro dell’Africa.
I Genovesi erano maestri nell’arte di navigare. Avevano perfezionato la tecnica delle costruzioni navali, avevano introdotto la bussola e l’astrolabio, avevano realizzato delle carte che disegnavano su una pergamena, in spazi ridottissimi, il profilo delle coste. Questa loro abilità era ben conosciuta ed apprezzata in tutto il Mediterraneo.
Non deve quindi meravigliare se i re di Castiglia e del Portogallo arruolarono marinai e costruttori genovesi a cui affidare la costruzione ed il comando delle loro flotte. Sulle coste di quei paesi, affacciate sull’Atlantico, erano già state costruite nuove e più affidabili navi, in grado di affrontare le navigazioni oceaniche.
Non desta meraviglia se alcuni di questi intraprendenti genovesi che trovarono fortuna in casa d’altri furono tra gli artefici della riscoperta delle isole Canarie.
Il primo di questi intrepidi navigatori fu certamente Lanzarotto Malocello il quale diede il proprio nome alla prima isola delle Canarie che si incontra in mezzo al mare, venendo dalle coste europee. Forse non fu neppure Lanzarotto a dare il nome all’isola. Forse fu la fama della sua “riscoperta” (le isole infatti erano già note ai Fenici, ai Greci ed ai Romani) che fece dire ad altri navigatori che quella era l’isola del genovese Lanzarotto Malocello.
E sulle carte nautiche dell’epoca, l’isola di Lanzarote era dipinta ben marcata, non solo se ne disegnavano i contorni, come per altre, ma era sormontata da una bandiera rosso-crociata sotto cui, in genere in latino, stava scritto che quella era “Isola del genovese Lanzarotto Malocello”.
Le prime carte nautiche con questa particolare raffigurazione dell’arcipelago canario sono del 1340 circa ad opera di cartografi genovesi e delle Baleari.
All’Archivio di Stato di Genova si conservano due documenti in cui si parla di Lanzarotto Malocello, a qualche anno dalla sua morte, e si evidenzia con caratteri forti il personaggio della moglie che era una Fieschi.
A Malocello occorre aggiungere l’altro navigatore, contemporaneo, Nicoloso da Recco. Questi ebbe una grandissima fortuna. L’eco del suo viaggio, con una flottiglia di tre navi, una delle quali era comandata dal fiorentino Tegghia de’ Corbiizzi, un’altra presumibilmente da Lanzarotto Malocello, ed una terza da Nicoloso, il quale pare essere stato il capo dell’impresa, giuse subito nei porti della Spagna meridionale.
Su queste vicende il grande Giovanni Boccaccio elaborò una piccola opera letteraria in latino, il cui titolo fa cenno ad “isole nuovamente riscoperte”. La relazione del Boccaccio, sul viaggio del Nicoloso è ricca di particolari. Essendo il primo dei documenti europei che racconti delle Canarie in dettaglio, è la base della moderna storiografia dell’arcipelago.
Nei primi anni del Quattrocento le Canarie interessarono i Portoghesi e gli spagnoli della Castiglia. Entrambi volevano stabilirsi sulle isole di cui avevano compreso l’importanza nelle rotte atlantiche. La partita venne vinta dagli spagnoli cui vennero assegnate. La loro colonizzazione iniziò attorno al 1480.
Alcune spedizioni di conquista furono organizzate a Siviglia dove esisteva una florida colonia di mercanti e banchieri genovesi. Furono questi ultimi a finanziare l’impresa e a garantirsi con l’assegnazione di terre .
Alcuni genovesi, delle famiglie di Siviglia si trasferirono alle Canarie, essenzialmente a Gran Canaria e a Tenerife dove impiantarono la coltivazione della canna da zucchero. In questo genere di coltivazione, poi integrata e sostituita da quella della vite, i genovesi tennero saldamente in mano un monopolio europeo che durò un secolo.
Furono decine le famiglie liguri e genovesi che attraverso Siviglia e Cadice si installarono alle Canarie.
Nomi come Spinola, Centurione, De Franchi, Sopranis, Monteverde, Ponte, Rivarolo, Lercaro, sopravvivono ancor oggi nell’arcipelago.
E’ significativo il caso della famiglia Lercaro, “los Lercarios” come dicono laggiù, la cui casa nella città de La Laguna, la capitale storica dell’isola di Tenerife, è stata trasformata in un interessante museo ad opera del Cabildo, il Governo insulare.
I Lercaro scrivevano a Genova per ordinare ai loro parenti, per farsi mandare da Genova, mobili, letti, camicie, calze, scarpe, pentole di rame, pestelli, parrucche, bottoni, scrivendo in italiano, per tutto il Settecento. Questa colonia così numerosa e attiva consigliò al Governo genovese della Serenissima Repubblica di nominare quattro Consoli che traversarono tutto il Secolo dei Lumi. Garantivano l’assistenza ai liguri residenti e ai mercanti e navigatori di San Giorgio che si affacciavano a quelle isole.
Venendo più vicino a noi, le Canarie furono stazioni di rifornimento delle navi, prima quelle a vela, poi quelle a carbone e a olio pesante, per fare uno scalo tecnico, per i rifornimenti del caso, nei porti di Las Palmas e di Tenerife.
Aveva iniziato Cristoforo Colombo, che nel corso del viaggio della scoperta fece scalo a Gran Canaria dove una chiesetta ricorda che lì pregò il Grande Ammiraglio, face riparare e adattare una delle sue caravelle e alla Gomera caricò acqua e viveri, prima di puntare verso Occidente, scoprendo l’importanza dei venti alisei.
Soffiando regolarmente verso Sud Ovest accompagnano letteralmente le navi a vela nella traversata oceanica.
Dopo Lanzarotto, Nicoloso, Colombo, decine di famiglie genovesi, comandanti ed equipaggi, emigranti verso il Sud America, Le Canarie sono ancora a portata dei genovesi d’oggi. O scendendo da una nave da crociera o da un aereo.E non sono isole qualunque: conservano infatti interessanti capitoli della loro storia intimamente uniti a quelli di Genova e della sua Terra.
Lanzarotto Malocello nell’Isola di Lanzarote
- CONDIZIONI DELL’ISOLA IN QUEL TEMPO -
Sfortunatamente per quanto riguarda la vegetazione questo libro è un pò superficiale, delle piante si limita a dire:”Non ha nessun albero,solo piccoli cespugli,per fare il fuoco ci sono degli alberelli che chiamano hyguyerez,che si trovano dappertutto da un estremo all’altro dell’isola, che hanno nell’interno una latte molto medicinale,e impossibile farlo bruciare a meno che non si faccia seccare e marcire e si impiega molto tempo per farlo”.
Questa descrizione sicuramente si referisce alla “tabaiba”,la Euphorpia Balsamifera che i botanici anticamente consideravano una pianta curativa come si presume dal suo nome specifico, forse confondendola con la Euphoria Cotusifclia anch’essa molto abbondante e simile alla prima ma con un latte caustico e corrosivo chiamato da siempre Higuerilla, nome simile al “Hyguyerz”citato dal “Le Canarien”.
Ancor oggi ci sono nell’isola ampi terreni ricoperti con questi arbusti che danno questo latte, tipici della nostra flora selvática,sopratutto il tipo Balsamifera può arrivare a crescere come un alberello.
Comunque la vegetazione selvática di quel tempo doveva essere abastanza più frondosa e exuberante che l’attuale sia come erbe che come arbusti dato che a quei tempi l’isola era molto più piovosa,secondo quello che riferisce l’autore del libro francese che parla di fonti e anche di torrentelli in Forteventura che scorrevano anche in estate,ciò fà pensare che per quanto riguarda la pioggia ciò possa essere valso anche per Lanzarote, data la vicinanza tra le due isole e la orografia simile.
Comunque per quanto riguarda il numero di specie vegetali bisogna ammettere che erano molte meno che le attuali,mancando le molte che sono state introdotte posteriormente dagli Europei. Gli alberi erano pochissimi,come viene ben specificato nel libro,si parla della Palma Canaria (Phoenix Canariensis), del Tarajal (Tamarix Canariensis),dell’Olivo (Olea Europea,o meglio la subspece Olea Cerasiformis) e forse c’era anche qualche altra specie arbustea più piccola. Per quanto riguarda la vita animale le specie di vertebrati selvatici erano ridotti al minimo, a parte quella del velocissimo Topo-ragno, rappresentata nell’isola dalla specie Crocidura Canariensis, scoperta dagli scienziati da pochi anni, non sembra che ne esistessero altre: i conigli, i topi, i ratti,e i ricci furono introdotti dagli Europei posteriormente.
I rettili terrestri erano ridotti a sole tre specie, le stesse che si incontrano attualmente nell’isola, che sono conosciute comunemente come Lucertola (Gallotia Atlantica),Geco (Tarentola Angustimentalis) e Orbettino (Cnalcides Polylepis), quest’ultimo attualmente molto raro. A questi rettili terrestri bisogna aggiungere le tartarughe di mare che ancora oggi si vedono sulle coste, come la Tartaruga Boba (Careta Careta),il Laud (Dermochelys Coriacea) e la Carey (eretmochelys Imbricata) che molto probabilmente venivano sulle spiagge a depositare le uova,sopratutto la prima specie.
Il mondo dei volatili era invece molto più variegato esistendo varie specie e sopratutto in gran numero data la minore incidenza sull’ambiente naturale per il minor numero di abitanti nell’isola.
Alcuni dati della ricchezza dell’avífauna dell’isola si trova nel “Le Canarien” (o cronaca francese della conquista),anche se si riferisce alla descrizione dell’avifauna di Forteventura, è praticamente sicuro che le stesse specie si trovavano anche in Lanzarote per le ragioni di stretta vicinanza ed ecologiche anteriormente esposte.
La specie di “Uccelli che sono grandi come oche e vanno sempre in mezzo alla gente e non lasciano nessuna sporcizia” secondo quello che dice il manoscritto di riferimento, si tratterebbe, quasi sicuramente del Guirre o Avvoltoio dal collo piumato chiamato dagli Ornitologhi Neophron Peronopterus, uccello che predilige per cibarsi i resti di altri animali morti, le cui caratteristiche coincidono abbastanza con la descrizione che di lui si fà nella cronaca anteriormente citata.
Per quanto riguarda quello che si dice di questi uccelli che “vanno sempre in mezzo alla gente” bisogna constatare che la confidenza che avevano allora con l’uomo era dovuta al fatto che venivano ben accolti e accettati per il lavoro di pulizia che facevano ,oltre che per essere considerati non commestibili in relazione alle abitudini alimentari degli aborigeni.
Anche i pesci e gli altri prodotti ittici erano molto più abbondanti che al giorno d’oggi, soprattutto per le difficoltà che avevano a quel tempo per catturarli. Comunque vi era così tanta abbondanza di pesci che non era troppo difficile pescarli usando sopratutto un sistema che si chiamava “envarbascado”, consistente nell’avvelenamento, con il lattice dell’Higuerilla citata prima, dei laghetti pieni di pesce che si formavano con l’abbassamento della marea lungo la costa e con altri metodi rudimentali citati da alcuni cronisti del tempo che parlarono dell’isola.
Si potevano notare notevoli differenze nell’ambito territoriale della stessa isola e nel suo aspetto aspetto geológico, anche senza considerare la zona colpita dall’eruzione del secolo XVII, che attualmente presenta un panorama con vaste estensioni di lava pietrificata, ampie zone ricoperte da lapilli e molteplici coni vulcanici,era costituita allora in maggior parte da vaste pianure di terra argillosa e fertile, ottima per la coltivazione dell’orzo che era l’unico cereale che usavano per fare il “Goffio”che era la base del loro sistema di alimentazione.